Ci sono voluti un po’ di anni perché trovassi la voglia di raccontare la nostra avventura sul Kimshung. Un’avventura che non considero conclusa, perché prima o poi vorrei chiudere i conti con questa bellissima cima Himalayana
Autunno 2016: Catena Himalayana del Nepal.
Per me e Giampaolo Corona è il secondo tentativo al Kimshung, vetta inviolata situata nella regione del Langtang. Questo massiccio montuoso è il più vicino a Kathmandu ed è raggiungibile in pochi giorni. Nonostante ciò, nella zona si trovano ancora svariate cime vergini.
Dire che nella primavera 2015 io e Giampi avessimo fatto un tentativo è un parolone. In quell’occasione abbiamo dovuto rinunciare alla spedizione a causa del terremoto. Durante la nostra permanenza in Nepal abbiamo preso parte a un’operazione di soccorso proprio nella valle di Langtang (vedi articolo Nepal 2015 nella sezione spedizioni e viaggi del sito).
La spedizione del 2016 è partita a fine settembre e si unì a me e Giampi il mio caro amico e ormai compagno di cordata storico, Emrik Favre. Partimmo nel migliore dei modi: ormai la nostra esperienza in questo tipo di spedizione ci ha permesso di arrivare velocemente a ridosso delle montagne.
Arrivati a Lantang, villaggio dove l’anno prima avevamo fatto le operazioni di soccorso, persi il respiro per un momento. Qui il terremoto aveva fato collassare 1000 m. più a monte una parte del ghiacciaio che scende dal Langtang Lirung. Questa valanga provocò un’immensa frana che colpì distrusse completamente il villaggio in cui all’epoca vivevano 400 abitanti. Dopo la frana ne restavano circa trenta. L’intero villaggio era distrutto, sommerso totalmente dall’enorme massa detritica che lo travolse. Sul lato opposto della valle, al di là del fiume, la forza della valanga appiccicò alle pareti del ghiaccio che ad oggi non si era ancora sciolto. Lo scenario era apocalittico, mentre l’attraversavo a piedi, incredulo di ciò che vedevo, un immenso dispiacere mi invase. Nella parte più a monte del villaggio, grazie ad alcune donazioni, i superstiti alla terribile tragedia ricostruirono alcuni lodge. Grazie al contributo della scuola di sci di Champoluc abbiamo raccolto e trasportato in Nepal alcuni vestiti che volevamo distribuire nel villaggio di Langtang. Verso sera, radunammo gli abitanti del villaggio e distribuimmo a ciascuno un indumento. In quel momento mi si avvicinò un uomo e mi abbracciò. Lo guardai attentamente e lo riconobbi: era una delle persone che avevamo aiutato durante l’operazione di soccorso. Notai che indossava la giacca rossa che gli avevo regalato lo scorso anno prima di salire in elicottero per tornare a Kathmandu. Fu bellissimo ritrovarci, ero contento di vederlo in salute.
Mi invitò nella sua nuova casa che aveva appena finito di costruire, lo seguì all’interno e mi offri un té. Parlammo per circa un’ora, fu un momento molto intenso che ricordo con affetto. Il terremoto gli aveva porta via la sua bambina di 5 anni. L’unica cosa concreta che abbiamo potuto fare l’anno prima è stata quella di trasportare in elicottero il corpo di sua figlia al tempio di Kyangi Gompa in modo da permettergli di avere un cerimonia funebre secondo il rito buddista.
Il giorno seguente l’obiettivo era arrivare direttamente al campo base saltando il villaggio di Kyangin Gompa. Ormai prossimi al luogo che avevamo scelto per piazzare il campo, udimmo i rumori di alcune valanghe. C’era nebbia quindi non riuscimmo a vedere nulla ma questo bastò per spaventare i nostri portatori. Si arrestarono di colpo senza voler più salire e proseguire. Solo grazie all’esperienza di Giampi riuscimmo a sbloccare la situazione e a raggiungere il nostro campo base e sistemarci entro sera.
Il giorno successivo ci sistemammo e iniziammo a pianificare la nostra esplorazione per capire dove attaccare la montagna. Il campo era appena fuori da una grossa morena, piazzammo le tende sull’erba dove scorreva un bellissimo ruscello. Onestamente uno dei più bei campi base di sempre. Eravamo a 4300 m. nello stesso luogo dove si attrezza il campo base per il Langtang Lirung.
Finalmente, il giorno dopo, il bel tempo arrivò e ci permise di individuare una via logica sulla parete in fronte al nostro campo base sul versante ovest del Kimshung. La via scelta aveva un avvicinamento tortuoso dove bisognava attraversare prima un ghiacciaio interamente coperto di blocchi e detriti, poi era necessario salire sotto una parete battuta da qualche canale valanghivo. Tutto questo per raggiungere i piedi della parete dove avremmo piazzato il nostro campo su un sicuro isolotto roccioso. Da lì, la via era logica: una parete di neve che andava a stringersi fino a diventare una goulotte che moriva ad un colle. Da quel punto, in teoria, avremmo dovuto seguire la cresta fino in vetta. Decidemmo subito di fare un giro di trasporto materiale in giornata così da iniziare a studiare la zona. Tutto filò liscio e in un solo giorno riuscimmo a portare gran parte del materiale a 5300 m. alla base della nostra via. Dopo due giorni di riposo, decidemmo che era il momento di salire al nostro campo per fare una prima ricognizione in parete. Partimmo di prima mattina e nel pomeriggio arrivammo al nostro campo 1. Con calma riuscimmo a montare la tenda, cucinare ed infilarci prima del buio nei nostri sacchi a pelo. Le notti in Himalaya sono lunghe, c’è tempo di pensare ma anche di farsi venire un bel mal di testa. Il mattino dopo ci svegliammo con le prime luci del giorno, una rapida colazione e partimmo per una prima ricognizione in parete. Arrivammo a circa 5600 m senza mai legarci. La neve era perfetta e salivamo veramente bene, io mi sentivo carico, tutto era perfetto: mi trovavo al momento giusto al posto giusto, stavo bene il team funzionava e la montagna era splendida.
In giornata rientrammo al campo base e ci godemmo un po’ di meritato riposo.
I giorni seguenti la meteo fece un po’ i capricci, facemmo un tentativo ma si arrestò al campo 1 perché nel pomeriggio caddero 20 cm di neve. Decidemmo di riposare un paio di giorni e aspettare una meteo più favorevole. In quei giorni ebbi per la prima volta la fortuna di sperimentare il soffio delle valanghe sul campo base. Le prime volte non è una bella sensazione: tu sei lì tranquillo in tenda e un’immensa forza, quando meno te lo aspetti, ti investe. Poi ti abitui, ti tranquillizzi perché realizzi che il campo base è protetto e inizi ad avere meno paura, finché trovi il tuo “karma” e capisci che tutto ciò che cade pulisce la parete
In quei giorni un’altra spedizione raggiunse il campo base. Erano 3 alpinisti trentini: Stefano Bendetti, mio caro amico e allenatore della nazionale italiana di sci alpinismo, Roberto Manni di cui avevo letto nel libro di Marco Confortola e Angelo Giovanetti guida alpina e istruttore che conoscevo per la sua fama. Organizzammo subito una cena tutti assieme e fu un momento splendido perché ci aiutò a staccare la spina e a rilassarci un po’. Ero contento ci fosse altra gente con noi al campo base, oltre ad essere una sicurezza in caso di incidente, per il morale era bellissimo.
Finalmente arrivò il grande giorno, la meteo era perfetta, tutto era pronto e noi eravamo carichissimi. Ormai il copione lo conoscevamo a memoria, come degli automi salimmo al campo 1 preparammo la cena e ci infilammo nei sacchi a pelo. Puntammo la sveglia alle 2.
Alle 3 partimmo: era freddo ma nulla di estremo, infatti muovendoci ci scaldammo subito. Superammo il punto toccato l’ultima volta, mi misi in testa e distanziai un po’ i miei compagni: mi sentivo bene e volevo solo salire. A circa 5800 ci legammo e ricominciammo a salire, ci alternavamo e a circa 6000 m. le difficoltà aumentarono.
Il terreno divenne più ripido, il canale si stringeva e davanti a noi comparivano dei salti sempre più verticali. Iniziammo a procedere a tiri così da procedere in sicurezza, facevamo tre tiri a testa e poi ci alternavamo. Alle 14.00 iniziò ad alzarsi in vento e alle 15.30 toccammo i 6580 m dove vedevamo il colle: ci mancavano circa 200 m per raggiungere la vetta ma il vento era fortissimo. Eravamo stanchi e le raffiche diventavano sempre più forti, non avevamo alcuna chance di raggiungere la vetta. Senza neanche discutere iniziammo la discesa. Ci aspettava un lavoraccio, dovevamo attrezzare tutte le soste per le doppie. In totale abbiamo attrezzato 18 abalakov con Kevlar e un nastro nero per far si che si vedessero a distanza nei prossimi tentativi.
Attrezzammo le ultime doppie al buio fino ad arrivare dove la parete era meno pendente. Da quel punto decidemmo di procedere slegati, Giampi partii a razzo invece Emrik era più stanco così decisi di aspettarlo. Finalmente alle 23:00 eravamo tutti di nuovo alle nostre tende dopo 19 ore di scalata. Sciogliemmo un po’ di neve e ci buttammo nei nostri sacchi a pelo senza dire una parola.
L’indomani chiudemmo le tende, sistemammo il materiale e per pranzo facemmo ritorno al campo base, eravamo contenti già durante il primo tentativo eravamo arrivati a 200 m. dalla vetta! Ci sentivamo bene ed eravamo ottimisti per il futuro. Purtroppo la meteo si guastò e in quota si alzò un vento micidiale. Il nostro meteorologo ci disse che per dieci giorni sarebbe stata dura tornare in parete. Da quel momento le giornate scorrevano sempre uguali: Giampi correva mentre io e Emrik giocavamo a pallavolo con i due cuochi, senza mai vincere una partita.
Purtroppo Emrik dopo il 20 ottobre dovette abbandonare la spedizione, aveva un impegno come guida alpina: sarebbe partito per un trekking con Abele Blanc nella regione del Mustang e non poteva aiutarci nell’attacco finale.
Io e Giampi ci trasferimmo a Kyanjin Gompa per qualche giorno. Lì recuperammo a pieno le forze. Doccia calda e qualche birra furono fondamentali per recuperare a pieno e ritrovare la giusta motivazione.
Finalmente la meteo stava cambiando, il vento calava ed era arrivato il nostro momento.
Ritornammo al campo base e rincontrammo i tre trentini che nel frattempo avevano iniziato ad attrezzare sul Lirung. Utilizzammo un giorno al campo base per preparare tutto il materiale e il giorno dopo saremmo saliti al campo 1.
Il mattino seguente tutto si svolse da copione: colazione con caffè della moka, una piccola preghiera al Chorten e salimmo al campo 1 tutto d’un fiato.
Cenammo e ci infilammo nei sacchi a pelo e alle due suonò la sveglia. Ci facemmo la solita colazione frugale e ci incamminammo verso la parete. Faceva più freddo del solito, era buio ma ormai conoscevamo la strada, arrivammo alla terminale impugnammo le piccozze e su!
Io davanti e Giampi dietro con un sincronismo perfetto, eravamo più veloci, l’acclimamento e il riposo ci avevano aiutato molto. Era buio non si vedeva nulla, tutto mi sembrava perfetto, neanche una bava d’aria, c’era un silenzio incredibile. Vedevo solo nel fascio della mia pila le piccozze, i piedi si puntavano in automatico nel pendio ghiacciato come se sapessero perfettamente cosa fare.
Arrivammo slegati a circa 6000 m senza dire una parola, c’era solo il suono delle piccozze e dei ramponi nella neve. Ad un tratto un rumore sordo interruppe tutto e di colpo il mio braccio destro mentre stava per dare un’ennesima picozzata fu colpito con forza da qualcosa. Mi sentì scivolare indietro, mi mancò il respiro ma fortunatamente con un movimento d’istinto mi aggrappai alla piccozza sinistra e riuscii a rimettere la piccozza destra nella neve. Vidi uno schizzo di sangue infrangersi nella neve bianca illuminata dalla mia pila frontale. In quel momento urlai dal male, subito cercai Giampi : “ Giampi ci sei?” “Si sono qui, sto bene e tu?” “Più o meno, qualcosa mi ha colpito il braccio, sento caldo e perdo sangue.” Giampi si avvicinò a me, piantò un paletto da neve e mi assicurò. Controllammo insieme subito la mia ferita e a caldo riuscii a muovere il braccio ancora un paio di volte poi stop. Era ovvio che dovevamo scendere, Giampi prese in mano la situazione e iniziò a preparare le corde per la discesa. Fortunatamente i nostri ancoraggi erano ancora tutti presenti. Io nel frattempo avvisai per radio il campo base e con il satellitare chiamai Migma Sherpa, capo della Seven summit trek, che era la nostra agenzia. Migma inoltre era il responsabile di una compagnia di elicotteri a Kathmandu ed era l’uomo giusto da chiamare per chiedere l’intervento immediato. Era chiaro ad entrambi che dovevamo scendere almeno fino alla nostra tenda per essere soccorsi. Io muovevo bene la mano ma non il braccio. Fortunatamente, con l’aiutò di Giampi, riuscivo a calarmi in doppia autonomamente. Arrivò la luce del giorno e Giampi guardò con cura la mia ferita…ma non mi disse qual era la reale situazione e mi chiese solamente se avevo del nastro, gli risposi di prenderlo nel mio zaino. Con il nastro mi chiuse al meglio la ferita e cerco di ricomporre il mio piumino. Avevo il guanto pieno di sangue così mi passò un moffolone per tenere la mano al caldo.
Giampi dovette attrezzare altre doppie fino alla terminale, io non ero in grado di scendere descalcando, mi ricordo benissimo che mentre mi calavo dalla terminale andai a sbattere sul bordo del crepaccio e in quel momento senti veramente un dolore fortissimo.
Giampi fu il mio angelo custode, mi accudì come un bambino finché finalmente arrivammo alla nostra tenda dove non c’era il sole e sentivo freddissimo. Per radio ci chiamò Stefano Bendetti dicendoci che loro erano pronti a partire a piedi, li stoppammo perché Migma ci confermò che un elicottero era partito e sarebbe arrivato al campo base. Dopo un paio di ore d’attesa arrivò l’elicottero. Nel frattempo era uscito anche il sole ma il mio corpo non si scaldava, avevo freddo ovunque. L’elicottero si posò al campo base e poi salì immediatamente verso di noi. Seguendo le indicazioni di Giampi l’elicottero si abbassò. Scese uno sherpa e mi aiutò a salire. Chiudemmo il portellone e giù. Mi posarono al campo base, subito arrivarono vicino a me Stefano, Angelo e Roberto. Mi dissero che l’elicottero stava andando a recuperare anche Giampi e ciò mi fece sentire più sollevato, sapevo che il mio socio poteva scendere tranquillamente da solo ma saperlo al sicuro mi faceva stare più tranquillo. Si avvicinò a me anche Migma che era venuto per coordinare l’operazione. Il nostro cuoco Renzii mi portò una tazza di caffè che mi aiutò finalmente a scaldarmi un po’. L’elicottero arrivò al campo, spense i motori e scese Giampi: mi si avvicinò e ci abbracciammo. Con l’aiuto di tutti, raccolsi un po’ di roba e senza perdere tempo salii nuovamente sull’elicottero: dovevo essere ospedalizzato al più presto. L’elicottero ripartì con a bordo solo me, Migma e lo sherpa. Io ero seduto su un bidone con dentro la mia roba e vicino a me lo sherpa: non c’erano i sedili posteriori. Facemmo tappa Kyanjin Gompa, l’elicottero spense i motori, alcune persone caricarono un decina di taniche di gasolio. Una signora mi riconobbe e mi portò una tazza di caffè: fu un gesto splendido, alcuni bambini si avvicinarono per vedere il mio braccio. In pochi minuti fummo pronti a ripartire. Risalii a bordo e mi accomodai sulle taniche di gasolio e vicino a me oltre allo sherpa salirono alcuni bambini. L’elicottero decollò, iniziavo ad avere caldo, stavamo perdendo quota ed ero ancora vestito come a 6000 m. e in più non capivo cosa ci facevano tre bambini vicino a me. Ad un certo punto ci abbassammo ad un villaggio dove i tre bambini scesero ma ne salire a bordo altri due: la cosa proprio non me la spiegavo. Io stavo male, perdevo sangue dal braccio, ero seduto su della benzina e continuava a salire e scendere gente. Dopo parecchi anni capì che le compagnie di elicottero sono sensibili con la popolazione e quindi se possono sfruttano i voli per portare i bambini a scuola o per riportarli alle loro famiglie sulle montagne.
Finalmente arrivammo a Kathmandu, faceva come al solito caldissimo. Ad aspettarmi c’era un’ambulanza. Iniziavo ad avere molto male, mi sdraiarono su una barella, mi bloccarono con una fibia e mi caricarono nel retro del veicolo. Quel viaggio dall’aeroporto all’ospedale non lo dimenticherò mai, l’ambulanza assomigliava alla macchina dei “Ghost Busters”: dietro ero solo e la barella posava su dei binari. La barella avrebbe dovuto essere bloccata sui binari, invece non lo era! Ogni volta che l’ambulanza partiva sbattevo contro la porta dietro e quando frenava sbattevo contro la parete che mi divideva dal conducente. In tutto ciò, non riuscivo a liberarmi, avevo caldissimo e il dolore era sempre più forte e ormai sentivo ogni indumento intriso di sangue. In quel tragitto riuscì a mettermi in contatto con Adriano Favre che si trovava a Kathmandu di rientro da un trekking. Ormai Adri era in aeroporto ma mi disse che avrebbe avvisato Corinne (sua figlia) Fausta e Valerie che stavano arrivando in ospedale e sarebbero subito arrivate in mio aiuto.
Finalmente l’ambulanza si fermò e sentì aprire la porta: in quel momento mi liberai e scesi con le mie gambe, dissi a medici e infermieri che io non volevo più saperne di quella barella e che sarei entrato camminando con le mie gambe!! Onestamente adesso mi rendo conto che in quei momenti vaneggiavo. Entrai in pronto soccorso mi sedettero su una barella e alcune infermiere iniziarono a svestirmi. Ad un certo punto iniziarono a tirarmi gli scarponi io avevo sempre più male e con un inglese a dir poco maccheronico cercavo di spiegare come sfilarmeli. Ad un certo punto arrivò un ragazzo con un’enorme forbice con la quale voleva fare a pezzi le mie scarpe. Andai su tutte le furie, mi dimenavo perché non volevo fargli tagliare i miei scarponi. Credo di averlo pure minacciato che se non mi avrebbe lasciato le scarpe l’avrei preso a calci.
In quel momento che io ricordo molto caotico vidi spuntare Corinne, Fausta e Valerie accompagnate dal nostro caro amico Ali. Ali è un ragazzo nepalese che parla perfettamente italiano, ormai è un mio caro amico e compagno di avventure a Kathmandu. Il suo business è quello di vendere pietre preziose a Thamel, centro turistico di Kathamndu.
Dopo il loro arrivo la situazione si calmò, mi aiutarono a svestirmi e complici alcuni calmanti mi tranquillizzai. Sono molto legato a Corinne con la quale ho passato 6 estati da ragazzo a lavorare al Quintino Sella, rifugio gestito dalla sua famiglia nel cuore del Monte Rosa. Anche Valerie ha lavorato svariate stagioni con noi in rifugio e inoltre con suo fratello andavo a scuola. Fausta invece la conosco da una vita, con lei ho affrontato la prima spedizione in Nepal allo Churen Himal. Fausta è un po’ la nonna dell’Himalaya credo che ci siano poche regioni dove non sia stata.
Finalmente vidi il mio braccio e non fu un gran bello spettacolo. Chiusi gli occhi mi girai con la faccia verso il muro. Non ebbi mai più il coraggio di guardare la mia ferita. Il dottore spiegò a Corinne e Ali che dovevo essere operato immediatamente. In quel momento chiamai a casa mia mamma e Alessia e poi entrai in sala operatoria.
Mi svegliai stordito, Cori mi aiutò a bere un po’ di brodo e dopo mi addormentai, ero sfinito.
Il giorno dopo Fausta e Vale mi aiutarono a lavarmi, fu una sensazione splendida. L’ospedale non era male, avevo la mia stanza con il mio bagno privato e miei amici a turno mi portavano il mangiare. Fortunatamente in anni di spedizioni ho conosciuto tante persone e tutti mi hanno aiutato e tenuto compagnia. In Nepal non forniscono da mangiare in tutti gli ospedali quindi è necessario avere qualcuno che ti aiuti portandoti i pasti. In realtà, se sei solo puoi contattare alcuni servizi take away ma la qualità del cibo non è il top. Finalmente dopo alcuni giorni Giampi arrivò a Kathmandu e venne subito a trovarmi. Ci abbracciammo, eravamo felici di vederci. Giampi mi raccontò che il giorno dopo imballò tutto il campo base e iniziò la discesa e che in tre giorni raggiunge la capitale nepalese.
Io dovevo fare almeno ancora 5/6 giorni di ospedale ma ormai me la cavavo bene e Giampi poté così rientrare in Italia, aveva già fatto tantissimo per me. Anche Corinne Vale e Fausta rientrarono, ormai mi stavo riprendendo e con l’aiuto di Ali e di tutta lo staff della Seven Summit riuscivo a cavarmela bene. Sistemai le pratiche burocratiche e finalmente dopo 10 giorni potevo essere dimesso. Concordai con il dottore che mi operò di prendere un volo il giorno in cui avrebbe firmato le mie dimissioni di modo da andare direttamente dall’ospedale all’aeroporto. Finalmente arrivò il gran giorno, chiesi ad Ali di accompagnarmi in aeroporto ma per un’incomprensione la mattina fuori dall’ospedale non c’era nessuno. Mi cercai un taxi ma era complicato muovermi con il mio bidone gigante, in più lo potevo tirare con un solo braccio. Il viaggio di ritorno non fu semplice ero ancora molto debole, ma finalmente arrivai a Milano. Ad attendermi c’erano mio papà e il Colonello Marco Mosso in quel momento capì che tutto era finito e che ero a casa.
Ci tengo a ringraziare Giampi, senza di lui non sarei qui a raccontare quest’avventura. Il mio socio mi ha salvato la vita e io in cambio gli prometto che tenteremo ancora assieme su questa montagna. Inoltre vorrei ringraziare di cuore tutti gli amici che mi hanno aiutato : Cori, Vale, Fausta, Emrik, Ali, Sete, Passang e Biman.
See you soon Kimshung……